Questo è uno di quei post che scrivo accettando il rischio del fraintendimento, nella consapevolezza di addentrarmi su di un terreno scivoloso, ma queste riflessioni premono da un po’, e provo a farle venir fuori…
Qualche giorno fa, scorrendo fb, sono incappata nell’ennesimo articolo che virgolettava una dichiarazione dell’attrice Jennifer Aniston, accompagnata da un commento della giornalista che riporto testualmente:
“Sono passati sei anni e non è cambiato granché. Ma aumenta il numero di donne che hanno la forza di affermare la scelta di non avere figli/e. E va bene così”
Accanto al testo, l’immancabile hashtag “childfree”. Come tanti commenti segnalavano, senza però ricevere risposta, la vicenda di Jennifer Aniston racconta una storia diversa. Una storia che lei stessa, dopo anni di silenzio, ha scelto di rendere pubblica. Una storia -mi verrebbe da dire- analoga a quella di tutte quelle donne che un figlio -o altri figli- non sono riuscite ad averli, non per scelta, ma per impossibilità. La dichiarazione della Aniston riportata nell’articolo, raccontava di come fosse stato doloroso per lei sentirsi esposta per tanti anni a tutta una serie di domande e di illazioni sul fatto di non avere figli e di come queste pressioni rimandassero al mito -duro a morire- di una femminilità che resta incompleta, sempre in bilico tra il senso di colpa o la vergogna, se non trova una sua piena realizzazione nella maternità. La dichiarazione si chiudeva con il suo sottolineare quanto potesse essere riduttiva, fuorviante -e violenta aggiungerei io- una rappresentazione del femminile così schiacciata sulla maternità e sull’idea di una completezza possibile -e garantita?- dal fatto di divenire madri. E fin qui, nulla da dire ovviamente.
A proposito di vuoti -e di rimozioni- l’aspetto che mi interroga e che ritrovo in tanti articoli come questo, è però una certa tendenza a negare la complessità di una storia personale di confronto e attraversamento di un limite, di una mancanza, arrivando a trasformare un’impossibilità in una libera scelta.
Mi preme sottolineare come la mia non sia una critica al concetto di “child-free”, quindi, a tutte quelle situazioni in cui la mancata genitorialità si pone quale esito di una scelta libera e consapevole, ma… quanto -entro certi contesti culturali in particolare- c’è bisogno di difendersi e reagire a certi vuoti, arrivando a rivendicare quasi una “liberazione dalla maternità”, finendo talvolta per guardare con diffidenza al desiderio stesso di maternità?
Interrogandomi su questi temi -come sempre non tanto alla ricerca di una risposta, ma col desiderio di allargare lo sguardo- mi viene in mente la parola COMPLETA, che, etimologicamente, rimanda senza troppe sorprese a PIENO.
La mia sensazione è che, ancora una volta, le posizioni polarizzate finiscano per assomigliarsi: mettere al centro della realizzazione femminile la maternità o tentare di liberarsene alla stregua di un ingombro rimanda, in entrambi i casi, ad un’idea di “completezza” che pretende di far fuori i vuoti. Da un lato, come se la gravidanza stessa andasse a reificare una condizione di pienezza che pretende di esorcizzare il vuoto, dall’altro scivolando su posizioni che pretendono di far fuori quei limiti che, invece, in un modo o nell’altro sempre ci riguardano, a meno di pensarsi onnipotenti.
La vicenda della Aniston, che evidentemente diventa per me un pretesto per evocare tante altre storie, mi pare invece racconti un percorso di (ri)costruzione di una pienezza che non ha più paura di riconoscere anche un vuoto… e che ne scopre, magari, anche il valore…
Perché, quindi, schiacciare, in questo caso, il non potere nel non volere? Forse per dar vita ad una narrazione che risulti più rassicurante? Più vincente?
