Appunti sul corpo nello spazio clinico

In che modo il corpo entra nello scambio clinico, in una psicoterapia ad orientamento psicodinamico? 

È questa una questione che mi sta molto a cuore, e che seguita ad interrogarmi, dentro un tentativo di mettere in relazione la “teoria” dei modelli con l’esperienza clinica.

Il corpo entra nella stanza della terapia concretamente (se le sedute sono in presenza) e in forma di discorso, in linea di massima se pone qualche problema, quindi, come corpo malato, rotto, problematico, inaffidabile, traditore… 

Mi colpisce sempre constatare come alla sofferenza legata al “sintomo” si aggiunga un ulteriore peso emotivo quando ci confrontiamo con tutte quelle situazioni in cui l’assenza di una diagnosi medica “forte”, o comunque la consapevolezza di confrontarsi con quadri complessi, pone più in figura la presenza di una componente psichica. 

Il costrutto di disturbo psicosomatico tende ad evocare tutta una serie di fantasie -non solo in chi riceve una diagnosi di questo tipo, ahimè- che ruotano attorno all’idea di “finta malattia”, di malattia non presa sul serio, non legittimata… come se il riconoscimento di una “componente psichica”, rendesse quel dolore meno “vero”, attivando talvolta una serie di sensi colpa. 

Alle volte il sintomo corporeo risulta l’unica via per accorgersi del corpo, un corpo pensato alle proprie dipendenze; un corpo che deve dimostrare e mostrarsi sempre performante. 

Portiamo il nostro corpo nella stanza della terapia, ma non è scontato che lo stiamo sentendo, abitando consapevolmente. 

Allora il sintomo può diventare una porta, un pretesto da cui partire per iniziare ad interrogarlo. Iniziare a sentirlo, realizzando che non è possibile contattare la dimensione del sentire, facendolo fuori. 

Può emergere, allora, la fantasia che il sintomo corporeo sia portatore di una verità da svelare, dentro una logica lineare che produce generalizzazioni. 

Se da un lato è vero che il sintomo ci dice qualcosa, dall’altro non è la rivelazione di un qualche segreto a realizzare il cambiamento. 

Aldilà dell’unicità di ciascuna situazione, l’unica cosa che mi pare possibile dire in generale è che quel dolore che si esprime nel corpo chiede di essere visto, riconosciuto e pensato assieme.

Chiede di essere trasformato da “cosa”, dato fattuale, ad elemento simbolico, finalmente dicibile e “manipolabile”.

Ciò che rende possibile il cambiamento, affonda le radici in un processo che avviene a livello profondo -entro la relazione terapeutica- qualcosa che intuiamo e di cui ad un certo punto cogliamo gli effetti, ma che si sottrae ad una piena comprensione razionale. 

Ci sarà sempre qualcosa che sfugge, qualcosa che resta indicibile, ma che -insieme- possiamo profondamente sentire…


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