Diventare psicoterapeuta

Vorrei parlarvi di come, nella mia esperienza, è andata delineandosi nel tempo la mia identità di psicoterapeuta e della difficoltà di sentirmi pienamente “compresa” entro una definizione.

Non vi parlerò del “come” si diventa psicoterapeuti, perché mi sembrerebbe ridondante rispetto ai tanti contenuti già presenti.

Vorrei, invece, porre l’accento sulle dimensioni che, su piani diversi ma interconnessi, concorrono al prodursi di questa “identità”.

Ai tempi della specializzazione, la mia Scuola di Psicologia della salute proponeva un’organizzazione delle “competenze psicologiche” su tre piani: sapere – saper fare e saper essere.

I primi due – sapere e saper fare- rimandano allo studio e all’interiorizzazione di modelli teorici (sapere) e di metodologie (saper fare), evidentemente differenziabili solo sulla carta, all’interno del lungo percorso di formazione universitario e post universitario. Percorso che abilita all’esercizio della psicoterapia e che, dentro un tempo che diviene anche uno spazio necessario per metabolizzare ed elaborare contenuti teorici ma sopratutto esperienze formative, rende possibile la costruzione di quella “base sicura” entro cui affondare le proprie radici e… iniziare a costruire la propria identità di psicoterapeuti.

Eh sì. Perché, per certi versi, questa fase, per quanto essenziale, costituisce solo il punto di partenza di un percorso che, per quanto mi riguarda, non può che restare in continuo divenire.

Il livello del “saper essere” costituisce la dimensione più sottile, impalpabile, di questo percorso. Quella più difficilmente raccontabile, perché connessa all’interiorità del terapeuta, alla soggettività di un processo che sfugge a qualsiasi codifica. Ed è prezioso che sia così.

L’analisi personale è solo una parte di questo percorso; analisi che mi pare fuorviante confinare nel territorio (difensivo) dell’analisi didattica.

Abbiamo bisogno di un lavoro su noi stessi per poter lavorare con la materia emotiva dell’altro, ma -nel qui ed ora del nostro percorso analitico- ne abbiamo bisogno per noi, per prendere contatto con le nostre ferite, per sperimentare (anche) il sentimento di fragilità, esposizione connesso al fatto di dire: eccomi. Questa sono io…

C’è un’espressione che, negli ultimi tempi, mi viene in mente pensando al percorso che sto provando a raccontarvi.

Trovare la mia voce.

Credo che, in ultima analisi, sia questo l’obiettivo di questo viaggio. Sentire che, nel tempo, questa voce si fa più autentica, perché le parole che scelgo, le direzioni che orientano la mia ricerca e la mia pratica clinica sono realmente “mie”, dentro un riconoscimento e un sentimento di gratitudine per i miei maestri e maestre.

Quando le radici sono ben piantate, le fronde possono danzare libere e leggere nel vento…