Lo spazio clinico e il non giudizio

Lo spazio clinico è -per definizione- uno spazio  non giudicante, ma in cosa consiste questo “non giudizio”, aldilà delle dichiarazioni d’intenti?

Non dispongo di una risposta definitiva, né credo sia utile cercare rifugio nel territorio rassicurante ma difensivo di una qualche definizione… 

La questione del giudizio si collega, a mio avviso, al tema della forma (il come diciamo qualcosa), ma, ancora di più, ad un aspetto di sostanza, connesso alle ragioni e agli intenti alla base delle nostre restituzioni. 

La mia sensazione è che -un po’ come accade per la comunicazione in generale- la grande attenzione riservata alla forma rischi talvolta di perdersi per strada la sostanza, realizzando uno scollamento tra quel piano di superficie, legato al contenuto letterale del messaggio, e un livello più profondo che raggiunge l’altro, aldilà delle parole. 

Per dirla in altri termini, non basta ribadire che non si sta giudicando, per scongiurare realmente questa eventualità. 

Forma e sostanza si disgiungono tra loro quando la dimensione del sentire -il terreno su cui prendono corpo le emozioni- non viene riconosciuta e accolta, divenendo una zona d’ombra inaccessibile e perturbante. Perdere contatto col sentire compromette la nostra autenticità, producendo uno sbilanciamento sul piano del dover essere, a discapito del saper essere. 

Ci prescriviamo, quindi, di non essere giudicanti -perché è cosa buona e giusta- bypassando quelle emozioni e pensieri che, magari, ci raccontano altro di noi, in un dato momento. 

Ecco che la possibilità di non giudicare non si pone più come punto d’arrivo di un percorso di riconoscimento ed elaborazione del proprio vissuto, ma diviene condizione di partenza, pretesa e autoimposta, a prescindere da ciò che si senta. 

Ma cosa significa non giudizio? 

Riesco ad abbozzare una risposta se traduco il non giudizio in una posizione relazionale. 

Nello spazio clinico, ma non solo, non giudicare non significa non prendere posizione, sottrarsi allo scambio con l’altro. Rinunciare a “dire”, quando ci sono le premesse per farlo. 

Non giudicare significa per me sentirmi dentro un movimento oscillatorio, che mi avvicina e mi allontana dall’altro, nel tentativo di sintonizzarmi sul suo sentire, non perdendo l’ancoraggio alla mia posizione, a quella “giusta distanza” che mi permetta di stare nel mio sguardo. 

Non giudicare ha a che fare con la possibilità di far sentire l’altro riconosciuto e accolto, realizzando quelle premesse che mi permettano poi di “entrare nel merito” e trovare le parole per dirlo. 

Non giudicare ha a che fare con la regolazione di due parametri. 

Uno, come già accennavo, è la giusta distanza, necessaria a produrre una vicinanza, ma anche a scongiurare una confusione che azzeri i confini. 

L’altro parametro concerne l’intensità del tocco delle proprie parole. Il tentativo di produrre una delicatezza che tenga presente la sensibilità dell’altro, ma che si assuma la responsabilità di toccarlo appunto.

Non giudicare, infine, ha a che fare con la possibilità di interrogarsi sulle intenzioni delle proprie parole: l’intento è quello di rendere pensabili e quindi riconoscibili certe modalità, certi aspetti dell’altro, o siamo mossi dalla fantasia di correggerlo e condurlo dove noi pensiamo sia giusto? 

Riuscire a non giudicare non è una conquista “data”, una volta per tutte; è un percorso complicato, non privo d’inciampi. Un percorso che procede parallelamente a quanto di noi stessi riusciamo a riconoscere, accogliere. 

E, qualche volta, perdonare… 


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