Io guardo ogni cosa come se fosse bella.
E se non lo è vuol dire che devo guardare meglio.
Franco Arminio “La cura dello sguardo”
Quando penso al mio percorso formativo, lo sento suddiviso in due fasi che ritrovo nei due “titoli” che ho conseguito: psicoterapeuta e specialista in psicologia della salute.
I titoli -di per sé- dicono ben poco, ma possono costituire un punto di partenza da cui muovere per restituire loro una consistenza e un senso che parli di noi, della nostra identità professionale, e non solo.
Devo ai miei maestri in ambito clinico le basi, le mie radici e la scoperta che la funzione clinica è uno sguardo attraverso cui leggere e interrogare la realtà, fuori e dentro la stanza della terapia. Uno sguardo che, ai tempi dell’università, forse avrei definito prima di tutto rigoroso e sempre in guardia rispetto al rischio dell’autoinganno.
Devo loro la scoperta dell’inconscio come dimensione simbolico-affettiva attraverso cui si costruiscono i nostri modi di stare nel mondo e leggere la realtà, e non (solo) come luogo interno del rimosso.
Devo loro, infine, l’idea che il vero pensiero è sempre un pensiero emozionato che si dispiega attraverso lo stabilirsi di una connessione tra la parte razionale e le emozioni.
A quei tempi, però, l’emozione era per me qualcosa da guardare sempre da una certa distanza; qualcosa d’impalpabile, incorporeo come un pensiero…
Gli anni della specializzazione in Psicologia della salute sono stati anni preziosi e complicati, la cui importanza mi si è chiarita solo a distanza di parecchio tempo.
Incontrare la questione della Salute ha significato per me avviare una riflessione sul rapporto tra salute e malattia e sulla definizione di cosa sia la salute; una riflessione sempre aperta, che credo mi accompagnerà per tutta la vita.
Quella che è poi diventata la mia maestra (forse, non a caso, donna… dopo diversi maestri uomini) raccontava di come coloro che si erano formati -ed erano rimasti- entro certi contesti della Psicologia Clinica, tendessero ad assumere una postura con le spalle rigide e alte. Ai tempi quella notazione -ironica fino a un certo punto- mi lasciò un po’ interdetta e diffidente. Erano tempi in cui neanche immaginavo le spalle potessero lasciarsi andare…
Entrare nello spazio largo, accogliente ma anche disorientante della Psicologia della Salute, ha significato per me rendere più “umano” lo sguardo; iniziare a riprendere contatto col corpo, rimetterlo dentro il discorso clinico, sentendolo e non solo pensandolo.
Non avere più paura di toccarle davvero, queste emozioni, dentro la fiducia di poter poi riemergere per poterle pensare.
Cercare la Salute, pensandola come una dimensione capace di com-prendere anche “la malattia”, è oggi l’intento che orienta la mia pratica clinica, ma anche la premessa che la rende possibile e dotata di senso per me.
Devo alla Psicologia Clinica uno sguardo, e all’ottica della Salute la possibilità di sentirlo, sentirlo veramente, nel corpo…
