Mi ripeto continuamente che c’è un tempo per ogni cosa. Un tempo per la semina. Un tempo per il raccolto. Un tempo per la pioviggine. Un tempo per la siccità. Un tempo per imparare ad aspettare che passi il tempo…”
Nel mese di giugno ho letto un libro che ho amato profondamente e che è arrivato tra le mie mani davvero al momento giusto.
Il libro è “Le pianure”, dello scrittore argentino Federico Falco, edizioni Sur.
Scritto in una forma che ricorda il diario, è il resoconto dei nove mesi -il tempo dell’attesa per antonomasia?- che l’autore trascorre in campagna, dedicandosi ad un orto improvvisato, a seguito della repentina fine della sua relazione.
Federico lascia Buenos Aires con la lucidità dolorosa di chi si accorge di dover mettere in sospeso la “vita di prima”, per entrare in uno spazio altro.
“Che cosa fanno i personaggi tristi dei film di tutte le ore del giorno? Che cosa fanno quando non suona la musica? È come se nel tempo del lutto non ci fosse narrazione…”
Federico si butta nel lavoro manuale, nella concretezza di un fare antico, primario, che lo riconnette ai ricordi dell’infanzia. All’orto di cui si prendeva cura ogni tanto, aiutando il nonno.
Ma questo “fare” non è una fuga dal dolore, piuttosto, la via che l’autore individua per attraversare questo tempo della perdita.
Il suo modo per stare dentro, e stare con, immerso in uno spazio -quello della pampa Argentina- che sembra riflettere il vuoto e il sentimento di smarrimento che Federico sperimenta nel momento in cui la sua relazione – suo porto sicuro e ancoraggio- improvvisamente va in pezzi, senza che lui possa far nulla per impedirlo.
La narrazione alterna resoconti minuziosi della “nuova vita” in campagna e del lavoro nell’orto, a ricordi di famiglia, dell’infanzia dell’autore e della sua relazione con Ciro.
La natura spesso aspra della vita in campagna; il succedersi delle stagioni -nell’ intreccio complicato di luci ed ombre- certamente non rendono la vita semplice a Federico.
Eppure, è soprattutto attraverso l’esperienza dell’orto, che l’autore apprende la lezione della pazienza, intesa come resa al fatto che -al netto del proprio impegno, della propria preparazione- l’esito di un processo, il “raccolto” non sarà mai tutto “sotto controllo”…
“Vorrei che tutto fosse più semplice, prendere quattro galline e che facessero l’uovo. Gettare dei semi e che germogliassero tutti, che le aiuole venissero su perfette, che non ci fossero contrattempi.
E invece no, bisogna aspettare che le pulcine crescano, proteggerle dall’iguana, dall’opossum, pregare che sopravvivano, aspettare due, tre mesi, chissà quanto. Bisogna abituarsi al fatto che la metà di quello che si semina va in malora, al fatto che non piove, che le piante si ammalano, che compaiono bestiacce di tutti i tipi…”
Ho trovato molto preziose anche le pagine sulla scrittura; su quanto questo tempo in campagna divenga occasione per ripensare la forma stessa dello scrivere.
Stavolta non c’è una scrittura da dirigere, coltivando l’illusione di un racconto che restituisca senso e coerenza alla vita, ma c’è un flusso narrativo da lasciar fluire, scoprendosi più esposti e disarmati.
Accettando di descrivere questo intreccio ingarbugliato e imprevedibile di eventi, di pensieri ed emozioni… così come si contempla questa sterminata pianura…
“A volte mi piacerebbe non dire nulla e fare solo una lista di parole che occupi il tempo. Una lista delle mie parole preferite (…)
Una parola non doma il corpo. Nessuna parola doma il dolore.Nessuna parola lo fa andare via. Nessuna parola riesce a dirlo veramente…”
Le pianure è un libro prezioso, perché trova le parole per raccontare questo “tempo dell’attesa”, senza intenti didascalici, con disarmante autenticità.
A me questa verità è arrivata dritta al cuore, imperfetta, commovente e inspiegabile come sa essere la vita…