Nei miei sogni più profondi, quelli che lasciano solo una traccia leggerissima, quelli che non ricordo, mi tuffo in acque blu cobalto.
Io, che forse non mi sono tuffata mai…
Una delle premesse centrali del mestiere di psicoterapeuta è la sospensione dell’azione, condizione essenziale per poter pensare l’azione e le emozioni, che poi, son fatte della medesima materia.
Per lungo tempo, questo “imperativo” è diventato mio rifugio e mia prigione… perché quando tutto quello che è possibile pensare è stato pensato, il pensiero deve arrendersi alla necessità di un salto, o finisce per attorcigliarsi sterile su di sé.
La sensazione è quella di sfiorare un limite. Finisce la terra. È un vissuto, questo, che inevitabilmente emerge ad un certo punto del percorso psicoterapeutico, restituendo al terapeuta, non meno che al paziente, una vertigine sospesa tra la paralisi dell’impotenza e la fluidità del possibile.
Quando tutto è stato detto, non resta che l’azione. È lì che diviene necessario il tuffo, a colmare un vuoto. Attraversare un passaggio.
Un tuffo che è sempre un volo, sostenuto dalla fiducia nel fatto che -comunque vada- risaliremo da questa immersione trovandoci sull’altra riva, stringendo qualcosa tra le mani…
Forse la fiducia, che non a caso condivide il suo nucleo emozionale con la fede, custodisce tra le pieghe del suo significato, proprio questo sentimento di possibilità.
Posso liberare il mio tuffo, dispiegare il mio volo, sostenuta dall’aria e dal mio centro, accolta dall’acqua… posso farlo, perché posso accettare di non conoscere il finale…
Credo di aver imparato tutto questo a teatro, in quei momenti silenziosi e lunghissimi in cui si spengono le luci e resta solo un buio profondo. C’è bisogno di entrare in quel buio, respirarlo, accettando di non vedere più nulla, e da lì ripartire. Per tornare alla vita, alla luce, col proprio gesto. La propria voce.
