Non esiste -almeno nella lingua italiana- un termine che connoti in termini positivi un atteggiamento di attenzione e cura verso se stessi.
Le due parole che mi vengono in mente -egoismo e narcisismo- tendono spesso a sovrapporsi nell’immaginario collettivo, finendo per banalizzare, se non addirittura travisare un tema complesso come quello del narcisismo… ma questa è un’altra storia che meriterebbe una riflessione di ben altro respiro…
Partendo dall’ipotesi che certi “vuoti” nel linguaggio, certe assenze, non sono mai casuali, notavo come il tema del rapporto tra cura-amore di sé e cura-amore degli altri tenda implicitamente a produrre una contrapposizione, reificata da una coppia di opposti: l’altruismo e l’egoismo, appunto. Concetti evidentemente contrapposti e non complementari, non solo sul vocabolario…
Di cosa ci parla questa assenza? Perché ci mancano le parole -una parola- per nominare il prenderci cura di noi stessi? Perché ci ritroviamo a dover parlare di un “egoismo in senso buono”, magari affrettandoci a specificare che “no, non siamo narcisisti eh…!”?
Una parola per riempire questo spazio, io non ce l’ho… però me ne viene in mente un’altra che scompagina le carte in tavola, permettendomi di fuoriuscire dalla rigidità di una contrapposizione.
Questa parola è presenza.
Nel corso dell’ultimo anno e mezzo, l’essere “in presenza” da elemento naturale, dato per scontato, è divenuto evento eccezionale, possibilità visceralmente desiderata, ma anche molto temuta. È stato proprio dentro questo tempo -solo in apparenza sospeso- che una serie di incontri e di esperienze mi hanno portata ad accorgermi di quanto la presenza abbia bisogno di un corpo, di una consistenza.
Se pongo al centro la presenza, viene meno la contrapposizione tra me e l’altro.
Che presenza posso offrire alle persone della mia vita, ai contesti che abito, se questo “eccomi” non è un esserci in primis per me? Come sento questa presenza, come la visualizzo?
È sempre da un eccomi che si (ri)parte.
