Qualche riflessione sulla presenza

Quando mi è possibile, cerco di concedermi un piccolo tempo vuoto, al termine delle sedute, nello studio, dentro un silenzio che mi pare conservi la densità delle parole che io e le persone che ho incontrato ci siamo detti. 

Un silenzio in cui respirano ancora delle tracce, delle atmosfere, palpabili eppure indicibili. 

 Questo spazio silenzioso mi fa pensare a come il lavoro terapeutico non resti confinato nel tempo delle sedute, nello spazio fisico dello studio, ma necessiti di un prima e di un dopo che ha più a che fare con uno spazio interno, tanto per il terapeuta, che per il paziente. 

Uno spazio in cui l’esperienza della seduta seguita a “lavorare” dentro di noi, sul piano cosciente, ma, ancora di più, sul piano profondo, ad esempio, attraverso il sogno. 

Negli ultimi tempi mi sono ritrovata spesso a interrogarmi sulla questione delle sedute online; sulle -innegabili- differenze che intercorrono, sul piano del setting, con le sedute dal vivo. 

Una questione che chiama in causa il tema della presenza: dal vivo o a distanza. 

Mi pare interessante notare come l’espressione “in presenza”, divenuta così ricorrente nei nostri discorsi in tempo di Covid, sembrerebbe quasi sottintendere un’assenza, nei casi in cui la relazione sia a distanza.
Dal punto di vista simbolico questo ci parla della centralità del corpo, sentito forse come una garanzia di presenza? 

Eccomi -verrebbe da dire- a partire dal mio esserci concretamente… 

Ma sarà davvero così…?

Penso a tutte quelle situazioni relazionali -fuori o dentro la stanza della terapia- in cui si respira una distanza, una chiusura… un’assenza? Esserci, fattualmente, senza esserci. 

Il trovarsi in presenza si configura come una condizione che facilita la relazione, ma che non la garantisce a priori. 

Parallelamente, il fatto di condividere uno spazio reale -la stanza della terapia- permette di fare esperienza concretamente di uno spazio d’incontro, ma perché questo divenga veramente uno luogo intimo e protetto entro cui avviare un lavoro d’analisi, condividere un percorso, c’è bisogno che questo spazio divenga anche uno spazio interiore. 

Nelle sedute a distanza non abbiamo la possibilità di fare affidamento su di una cornice concreta, ma questo non significa che lo spazio terapeutico sia meno vivo e reale. 

È centrale, tuttavia, che questa assenza non venga difensivamente negata e che il terapeuta riservi una cura particolare alla cornice del setting. 

Una cornice da pensare e rendere comunque viva e palpabile sul piano esperienziale. 

Una cornice che permetta l’emergere di pareti solide, capaci di contenere e sostenere il percorso terapeutico. 

Mi colpisce come sia proprio attraverso il lavoro clinico a distanza che mi sia ritrovata ad interrogarmi sulla presenza; su quale sia la sua essenza. Questo esserci con l’altro e per l’altro, anche quando non è possibile sperimentare una vicinanza fisica. 

Io questa essenza non la riesco a definire attraverso una parola, ma quello che so per certo, è che mi riporta alla dimensione del sentire. Ed è su questo livello che l’esperienza dal vivo e quella online s’incontrano: nella possibilità di sentire -o meno- il nostro esserci e l’esserci dell’altro, nel qui ed ora dell’incontro. 

Portare l’attenzione sul piano del sentire ci permette di non trattare la presenza in termini fattuali, scontati, ma di mantenere un contatto con ciò che sentiamo, dentro la consapevolezza che anche la presenza è una possibilità che si costruisce, e non qualcosa di dato una volta per tutte.  


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