Quando un giorno da un malchiuso portone
Eugenio Montale (da I limoni)
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.
Sono giorni di pioggia, qui a Roma, sottile ma persistente.
Ieri mattina non mi sono lasciata scoraggiare dal grigiore del cielo e ho approfittato di qualche ora libera per uscire a passeggio con Bergi.
Girovagare senza una meta ben precisa è una possibilità non scontata; forse la fantasia sullo sfondo è il senso di colpa rispetto al fatto di perdere tempo, o forse ciò che affiora è la vertigine legata al contatto con un vuoto, chissà…
Dopo pochi passi ha iniziato a piovere; decido comunque di non demordere e far finta di essere in Inghilterra, perché nella mia fantasia loro alla pioggia non fanno più caso e girano senza ombrello.
Bergi mi guarda con la sua aria interdetta, ma -in braccio- si rassegna a proseguire.
A volte accade che la meta sia un luogo al quale tendiamo senza rendercene conto; un percorso che occorre “solo” lasciar accadere.
La pioggia è rimasta sottile, l’ho presa per una promessa mantenuta. Ho rimesso a terra Bergi e ci siamo addentrati per il quartiere Ostiense, che per me è il quartiere de Le fate ignoranti.
Solo a quel punto mi sono ricordata di aver letto giorni prima che proprio nei paraggi -in uno dei tanti cortili interni che si aprono oltre i cancelli- è presente il ciliegio più antico del quartiere.
Trovo l’indirizzo proprio nel momento in cui la pioggia aumenta, ma entrando nel cortile ci troviamo davanti solo alberi spogli… complice il tempo autunnale, faccio confusione e temo che il ciliegio abbia già perso tutti i fiori… come se il tappeto niveo dei petali divenisse un tappeto di foglie.
Forse, alla fine, è davvero così per i fiori di ciliegio -scivolano silenziosi dalla primavera all’autunno-anche se il loro arrendersi alla fugacità del tempo della fioritura non contiene il fuoco dell’autunno, ma una qualità più eterea. Struggente e malinconica, come un sogno interrotto prematuramente.
Non potrebbero mai esser rossi, i fiori di ciliegio…
Ma torniamo a noi e agli alberi spogli. Ci addentriamo nel cortile, perché qualcosa mi dice che il ciliegio non è tra quegli alberi ancora dormienti e mi accorgo che proseguendo c’è un’ulteriore corte.
Eccolo il grande ciliegio bianco, al centro di quello che diviene per un po’ il nostro giardino segreto.
Ce ne restiamo in silenzio -Bergi e io- a guardare la pioggia sottile cadere. Pioggia di gocce e di petali danzanti, in un silenzio insolito e prezioso, così in pieno giorno.
Parlo al plurale perché in momenti così speciali – quando tace il rumore di fondo- mi accorgo veramente della sintonia che si crea con Bergi: immobile e finalmente pacificato anche lui, i petali bianchi sulla testa.
Ce ne restiamo lì per un tempo piccolo ma infinito, come se si fosse aperto un varco… mi tornano in mente, da un tempo lontano, dei versi di Montale e il suo malchiuso portone con il giallo dei limoni.
Fluisce il pensiero e penso alla poetessa giapponese Momoko Kuroda, che nel 1968, all’età di trent’anni, molla il suo lavoro per iniziare un pellegrinaggio per tutto il Giappone per seguire la fioritura dei ciliegi e comporre degli haiku. Da allora, non ha mai smesso di comporre i suoi versi, intrecciando vita, passi e parole al tempo dei ciliegi.
Ce ne andiamo via con qualche foto venuta male, ma in fondo è bello e inevitabile che qualcosa resti solo sfiorato. Evocato. Come nell’haiku che silenzioso compongo.
Pioggia di marzo
tra i fiori caduti
sciolgo parole