La luce nell’universo poetico di Sylvia Plath (seconda parte)                

Dicevo, nella prima parte di questo post, che una storia non la si comprende dal finale, eppure, in un certo senso, è proprio di un finale che, oggi, vorrei parlarvi: quello di Ariel, la raccolta poetica più importante della Plath, pubblicata postuma nel 1965. La raccolta è curata da Ted Huges -il marito poeta- e risulta considerevolmente diversa dal manoscritto progettato dalla Plath tra il novembre e il dicembre del 1962. Sylvia organizza questa raccolta nel periodo probabilmente più drammatico della sua vita: ha lasciato il marito dopo la scoperta bruciante del suo tradimento, a pochi mesi dalla nascita del secondogenito, e si ritrova da sola con i due bambini molto piccoli (Frida e Nicholas), alle prese con l’avvio di una “nuova vita” a Londra, in un inverno passato alla storia come uno dei più gelidi che la città avesse conosciuto nel secolo scorso. Come si evince dalla lettura delle lettere alla madre Aurelia, la Plath sembra oscillare tra speranza e disperazione, alla stregua di un funambolo che procede sul suo filo sospeso nel vuoto, senza reti di protezione.

Il tema del doppio, da sempre presente nella storia della Plath, diviene, se possibile, ancora più centrale in questi suoi ultimi mesi di vita: c’è la madre che di giorno accudisce i propri figli e di notte -o meglio, alle prime luci dell’alba- diviene poetessa e scrive poesie destinate a restare; c’è la moglie abbandonata che, tra rabbia, dolore e disperazione lotta con i propri fantasmi, col desiderio a tratti irrefrenabile di arrendersi e, semplicemente, mollare la presa e c’è la figlia giudiziosa, che ostenta ottimismo e forza di volontà mentre, un passo alla volta, aumenta quella distanza oceanica -non solo in senso geografico- tra lei e la famiglia di origine, le proprie radici, sottraendosi allo sguardo materno e alla possibilità di ricevere un aiuto. La complicata opera di cucitura di queste parti, appare in questo momento impossibile, un po’come se fosse stato superato un limite. Un po’ come se, dopo una vita costantemente attraversata dallo sforzo di tenere assieme tutti questi pezzi/parti, qualcosa si fosse irrimediabilmente spezzato.

È in questo scenario che Sylvia Plath prepara la raccolta poetica Ariel, composta da 41 poesie, collocate secondo un ordine che non è cronologico, ma che si propone, piuttosto, di delineare un persorso, che si apre con LOVE  (amore), la prima parola di Morning song (canto del mattino) e si conclude con SPRING (primavera), l’ultima di Wintering (Svernare). Un percorso che racconta una storia di cambiamento e rinascita, che passa attraverso il crollo -devastante- delle proprie certezze più care; la delusione sferzante di attese, desideri e progetti che si rivelano illusori; l’attraversamento del dolore, della rabbia, della disperazione, buchi neri che inghiottono, togliendo il respiro … eppure, alla fine, il lento ma costante emergere di uno spiraglio, di una luce che, da fioca, sembra farsi sempre più vivida e vitale. Non risulta che la Plath abbia tentato di far pubblicare questa raccolta, dettaglio forse rilevante, se si considerano le energie che di solito investiva nel tentativo di far conoscere e promuovere la sua produzione poetica e i suoi racconti. Fatto sta che la raccolta pubblicata postuma nel 1965 e curata da Huges, dello spirito dell’Ariel originario risulta mantenere ben poco… Solo il titolo e l’incipit, mi verrebbe da dire!

Venire a conoscenza di questo dato ha significato, per me, visualizzare la zona d’ombra in cui è rimasta la raccolta Ariel, così come la Plath la aveva concepita, destrutturata e di fatto tradita nella sua essenza, al punto di divenire altro, raccontando una storia diversa, nonostante i pezzi che la compongano siano comunque le sue poesie, dentro una scenario di tendenziale disconoscimento di questo elemento. Non si tratta di un’informazione negata, ma di qualcosa che, comunque, non è stato fatto oggetto di particolari attenzioni, salvo qualche rara voce fuori dal coro. Aldilà delle ragioni di carattere editoriale addotte da Huges per motivare questa sua scelta, come non vedere in questa operazione l’ennesimo disconoscimento? Il tentativo di espropriare un senso, finendo per far raccontare alla poetessa una storia diversa, nonostante la voce resti apparentemente la medesima?

Senza addentrarci nel dettaglio delle differenze tra le due raccolte, basti ricordare come la raccolta Ariel curata da Huges -e il paradosso è che potrebbe essere definita la raccolta “ufficiale”- non comprende alcune tra le poesie più amare e aggressive della Plath, contenenti dei riferimenti sprezzanti al marito e alla fine della relazione (The rabbit cather, o The jailer, ad esempio), ma include, invece, le poesie dell’ultimo periodo. Poesie che la Plath pensava parte di un’ulteriore e successiva raccolta; poesie che chiudono Ariel con la raggelante, perfetta fissità di Contusion, Edge e Words, i suoi ultimi componimenti.

Ecco quindi che lo scalpitio degli zoccoli di Ariel, la poesia che dà il titolo ad entrambe le raccolte, se nella narrazione di Sylvia diviene emblema di quel processo trasformativo, potente e catartico che, in qualche modo, libera ed apre, nel racconto riscritto da Huges, è corsa distruttiva ed inarrestabile verso la morte. Riportare in figura la versione della Plath mi pare un modo per restituire spazio e voce ad una storia diversa, espressione di quelle parti vitali, di quella zona di luce della poetessa e della donna, che sento importante riconoscere e valorizzare.

Provo a farlo soffermandomi su Wintering (Svernare) quella che sarebbe dovuta essere per la Plath l’ultima poesia della raccolta: di seguito, la poesia, nella traduzione italiana di Anna Ravano e qui, il testo originale

Svernare

Questa è la stagione rilassata, non c’è niente da fare.

Ho fatto girare lo smielatore della levatrice,

ho il mio miele,

sei vasetti,

sei occhi di gatto in cantina,

che svernano in un buio senza finestra

nel cuore della casa

accanto alla marmellata rancida dell’inquilino precedente

e alle bottiglie di vacui luccichii-

il gin di Sir Tal-dei-Tali.


Questa è la stanza in cui non sono mai entrata.

Questa è la stanza in cui non ho mai potuto respirare.

Il nero vi è raggomitolato come un pipistrello,

nessuna luce

oltre alla pila e al suo debole


giallo cinese su oggetti spaventosi-

Nera imbecillità. Sfacelo. 

Possessione.

Sono loro a possedermi.

Nè crudeli nè indifferenti,


Solo ignoranti.

Questa è la stagione della resistenza per le api-le api 

così lente che le riconosco a stento,

sfilano come soldati

fino alla lattina dello sciroppo,

risarcimento del miele che ho tolto loro.

Tirano avanti grazie a Tate e Lyne,

la neve raffinata.

Vivono di Tate e Lyne invece che di fiori.

Lo accettano. Arriva il freddo.


Ora si raccolgono in una palla,

nera

mente contro tutto quel bianco.

Il sorriso della neve è bianco.

Si allarga, corpo di porcellana Meissen lungo un miglio


nel quale, nelle giornate tiepide, 

Possono solamente portare i loro morti.

Le api sono tutte donne,

le vergini e la lunga signora regale. 

Si sono sbarazzate degli uomini,


tangheri, goffi e tozzi, nullità. 

L’inverno è per le donne-

la donna, che continua il suo lavoro a maglia

accanto alla culla di noce spagnolo,

il suo corpo un bulbo nel freddo è troppo istupidito per pensare.


Sopravviverà l’alveare, riusciranno i gladioli

a conservare in vita i loro fuochi

per entrare in un nuovo anno?

Che sapore avranno le rose di Natale?

Le api volano. Sentono il sapore della primavera.

                                                                        9 ottobre 1962


Più che letta, questa poesia andrebbe ascoltata, magari ad occhi chiusi, così da assistere, lentamente, al delinearsi di uno scenario, un po’ come se una luce andasse via via ad illuminare uno spazio scuro, una stanza che è interna ed esterna al contempo. Dal mio vertice clinico di osservazione, quello che vorrei proporvi è un incontro col testo, la possibilità di entrare in risonanza con esso, attraversandolo e lasciandovi attraversare, così da viverlo esperenzialmente.

Svernare descrive per me una trasformazione silenziosa, un processo fatto di impercettibili passi; processo che, fino ad un certo punto, ci pone di fronte ad una fissità che fa pensare al letargo, alla glaciazione, per poi, misteriosamente produrre uno scatto, una fessura, un cambiamento, solo in apparenza improvviso ed inaspettato. Penso all’attraversamento di un dolore, all’elaborazione di un lutto, a quanto centrali siano, entro tali processi, dimensioni come la resistenza, l’attesa, l’adattamento: dimensioni caratterizzate da un saper attendere/sopportare, ben lontano dalla fissità propria della passività impotente.

Svernare ci ricorda come, a volte, non resta che lasciarsi attraversare dal tempo del dolore, confidando nel fatto che, come tutte le esperienze, avrà una durata limita, parte di un processo più ampio, di una ciclicità ben rappresentata dal tempo delle stagioni e dalla certezza della loro ripetizione.

Non entro nell’analisi della poesia, un po’ perché non è questa una mia competenza e mi sembrerebbe di sconfinare, un po’ per lasciare, a chi lo desideri, la libertà di una personale ricerca ed esplorazione; vorrei però lasciarvi con l’immagine delle rose di Natale, che sbocciano nonostante e attraverso la neve; di queste api –luci nel buio– che intuiscono e così facendo rendono possibile il tempo della primavera; di questa donna che torna a farsi corpo-bulbo che custodisce e prepara la vita…

Questa è la mia immagine di Sylvia Plath, parziale e convintamente di parte, un taglio di un quadro molto più complesso e contraddittorio. Mi sembrava importante portarlo in figura. Restituirgli uno spazio e una voce.

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Roseto comunale di Roma Nostalgie (Germania)

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