La luce nell’universo poetico di Sylvia Plath (Prima parte)

La mia scoperta dell’Universo poetico e personale di Sylvia Plath, ha radici lontane che -come spesso mi accade quando faccio degli Incontri- affondano in quella terra di mezzo che qualcuno chiama caso, ma io inizio a definire destino. Per diversi anni, una vecchia edizione in lingua originale di Ariel, la sua raccolta di poesie più conosciuta,  mi attendeva nella nostra libreria: non sapevo quando, nè come, ma sentivo che, prima o poi, avrei preso in mano questo testo, con le sue pagine ingiallite e il timbro sbiadito con nome e indirizzo di una libreria londinese, e una data: 1968.

Un anno e mezzo fa, il momento è arrivato, ed io ho iniziato un viaggio alla scoperta di questa poetessa ( in ragione di un nome in comune? Chissá…); un viaggio che mi ha fatto pensare ad un’immersione in acque profonde, misteriose, perturbate e perturbanti, da cui sento di essere riemersa stringendo tra le mani una ricchezza complessa e preziosa, che mi piacerebbe riuscire in qualche modo ad evocare, attraverso queste righe … Perché possa essere intuita, sfiorata, accendendo magari un interesse, ispirando ulteriori, personali, percorsi di scoperta.

La storia di Sylvia Plath, la poetessa di Boston, vissuta tra gli Stati Uniti e l’Inghilterra, morta suicida a 31 anni a Londra,  rischia di essere più nota delle sue opere, un po’ come spesso accade, rispetto a “certe storie”

Ma di che storia stiamo parlando? Prima di scrivere questo pezzo, per giorni mi è risuonata dentro una frase: una storia non la si comprende dal finale -come neanche dall’inizio- nonostante si tratti di due momenti cruciali. Pretendere di esaurire il senso di tutta una vita, isolando un momento, cristallizzandolo, anche quando si tratta del finale, significa liquidare, smarrire la complessità di un percorso molto più ricco, controverso ed affascinante.

Ricordo come, qualche tempo fa, scoprendomi alle prese con l’ennesimo filmato d’archivio della Plath, mio marito mi chiese cosa stessi cercando, forse un po’ turbato da questo mio perdermi e disperdermi dentro una storia apparentemente tanto amara. Allora non sono stata in grado di rispondergli, se non con una generica rassicurazione. Ora sento di poter dire che ero in cerca di spiragli, di quelle fessure attraverso cui passano traiettorie, vie di fuga, utili a suggerire la scrittura di una storia diversa, di un senso altro, che senza avere la pretesa di imporsi come quello vero -o più vero degli altri- tenti, piuttosto, di far circolare un dubbio e, con esso, un po’ di luce ad illuminare l’oscurità.

Mi vengono in mente, a questo proposito, le parole bellissime del regista Pippo Del Bono, in “Racconti di giugno“, 2011:

C’è oggi una confusione di cose diverse che ci attraversano, che non so decifrare. Cose dai colori sconnessi. Terribili violenze mischiate nella dolcezza. Durezze nascoste dietro la tolleranza. Sorrisi nei pianti. Lacrime nei visi formalmente gentili. Ferite profonde nelle cose apparentemente compatte. Rigogli di sangue sotto le vesti profumate e delicate. Un’ignoranza profonda sotto le cose apparentemente colte. (..) Mi ricordo, quando ero in Palestina o in Iraq o in altri luoghi di guerra, luoghi di profonde ferite, la scoperta incredibile di cose luminose in mezzo alle macerie. (…) Ricordo quel pulsare di vita tra quei luoghi distrutti, quegli occhi attenti, lucidi, che ti scrutavano curiosi, emanando da quella condizione uno sguardo saggio e intenso sul mondo. 

La storia di Sylvia Plath è per me la storia di una donna divisa, che ha tentato nel corso della sua vita di ricucire certe fratture, alla ricerca di un punto di equilibrio che le consentisse di stringere tra le mani il pane ma anche le rose. È la storia di una poetessa e scrittrice coraggiosa, di una moglie profondamente innamorata, di una madre, di una figlia, di una giovane donna in conflitto con le ipocrisie e gli autoinganni della società del suo tempo. Una vicenda, la sua, che mi fa pensare al limite, al suo porsi quale linea di confine utile a delimitare, proteggere, differenziare; linea che, a volte, esiste su di un piano teorico, ideale,  ma non nella realtà, dove i livelli si fanno più sfumati, i confini più ambigui. Sfocati. Penso, ad esempio, al rapporto tra il normale e il patologico, tra la salute e la malattia, a come il confine tra i due piani sia,  in realtà, molto più scivoloso ed ambiguo di quanto si tenda, difensivamente, a pensare…Limite (Edge) è anche il titolo di quella che si suppone sia stata l’ultima poesia scritta dalla Plath.

La questione dei disturbi mentali di Sylvia Plath, associata ai suoi due tentativi di suicidio é, tendenzialmente, uno degli aspetti maggiormente messi in figura di questa poetessa, all’interno dei molti testi a lei dedicati.  A proposito di confini, emerge, inevitabilmente, la difficoltà di separare la donna, dalla poetessa; la sua storia, dalle sue opere (poesie, racconti, un romanzo e le lettere alla madre): se da un lato tutto questo é inevitabile, oltre che sensato, dall’altro mi pare rischi di produrre uno schiacciamento di un piano sull’altro, laddove, invece, sarebbe forse più utile mantenere un confine, che consenta di mettere in rapporto la biografia della donna con il suo universo poetico, differenziando però il piano di realtà -la sua storia- da quel piano fantasmatico che, nelle sue opere, prende forma, trasfigurandosi e divenendo altro. 

La sensazione che spesso ho avuto, leggendo una parte della letteratura sulla Plath, é stato un forte fastidio, legato all’impressione che vi fosse quasi un compiacimento sottile, morboso, ad insistere su determinati dettagli della sua storia, col risultato di delineare una figura di donna, il più delle volte fragile, malata, instabile, insicura… Talentuosa, sì, ma quasi suo malgrado… Non a caso, anche la sua forte ambizione tende ad assere associata al tema dell’invidia nei confronti di Ted Huges, il marito poeta, a dimensioni narcistiche, a deliri di onnipotenza,  col risultato di gettare un’ombra anche sugli aspetti più forti della sua personalità. Spesso queste analisi muovono da un vertice clinico, più o meno impropriamente psicologico, e credo sia stato proprio questa la causa della mia irritazione. E la molla che mi ha spinto a scrivere.

Come psicoterapeuta, sento di avere una responsabilità dello sguardo. Sguardo che pesa e restituisce consistenze, misure, agli elementi che illumina; sguardo che, più o meno consapevolmente, sceglie ogni volta cosa mettere in figura, e cosa lasciare sullo sfondo, che orienta emozioni e pensieri, imprimendo direzioni e riorganizzando le traiettorie delle azioni. Sguardo che si interroga ed interroga la realtà. Riconoscersi una responsabilità dello sguardo, significa chiedersi da quali premesse e con quali obiettivi si stia guardando l’altro.

Interessarsi all’altro -esattamente come a se stessi, o più in generale ad aspetti del reale- cercare di conoscerlo, affacciandosi sul suo mondo, sulla  sua storia, é qualcosa che non ha nulla a che vedere con dimensioni diagnostiche o valutative, utili -al di fuori dei contesti di pertinenza- unicamente a produrre sterili e frettolosi etichettamenti. Chi sia l’altro, quale sia il senso del suo funzionamento psichico, in che rapporto si ponga con la sua storia, sono tutte questioni, per quanto mi riguarda, assolutamente sganciate da intenti diagnostici.

É a partire da queste stesse premesse e con questi interrogativi che mi sono avvicinata alla storia e alle opere di Sylvia Plath, mossa dal desiderio di conoscere la donna e la poetessa, non la persona con disturbi mentali. Mi preme sottolineare che questa per me non é una premessa ideologica, bensì metodologica. Non si tratta di negare difensivamente  le zone d’ombra, le fratture, le ferite, ma, semmai, di non averne timore, includendole all’interno di una visione più ampia, capace di contenere al suo interno anche parti vitali, risorse, zone di luce, accettando la coesistenza di entrambe, nonché la loro intima correlazione. Ho letto Sylvia Plath, andando in cerca di queste isole di luce, non diversamente da come faccio con le persone che incontro in psicoterapia, perché é solo da qui che sento di poter muovere, per illuminare il buio, che inizia così a ritrovare dei confini, non saturando tutto lo spazio….

Chiudo questa prima parte del post, con un passo di Sylvia Plath che amo particolarmente, proprio per questo portare in figura suoi aspetti vitali, spesso frettolosamente liquidati. Il brano è tratto dai Diari. 

 

image“(Sabato mattina, 13 dicembre). Allora impara a vivere. Tagliati una bella porzione di torta con le posate d’argento. Impara come fanno le foglie a crescere sugli alberi. Apri gli occhi. Sul raccordo del Green Cities’ Service e sulle colline di mattoni illuminate di Watertown, la sottile falce di luna nuova sta distesa di schiena, unghia luminosa di Dio, palpebra abbassata di un angelo. Impara come fa la luna a tramontare nel gelo della notte prima di Natale. Apri le narici. Annusa la neve. Lascia che la vita accada…”

Nella seconda parte del post, ci addentreremo nella storia di Ariel e nei segreti che custodisce…


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