Pochi giorni prima di iniziare la lettura de “La figlia unica”, della scrittrice messicana Guadalupe Nettel (La Nuova Frontiera), ho ascoltato una bella intervista alla radio della mia poetessa preferita: Chandra Livia Candiani. Una sua riflessione in particolare ha seguitato a risuonarmi dentro, a proposito della sottile ma profonda differenza che intercorre tra “accogliere” e “accettare“. La Candiani racconta come al verbo accettare preferisca di gran lunga il verbo accogliere…
Perché alle volte la vita ci pone di fronte ad elementi che non possiamo -e non vogliamo- accettare, ma che possiamo scegliere di accogliere, nel momento in cui prendiamo atto di non poterli cambiare.
Queste parole mi sembrano un indizio prezioso da cui muovere per introdurre “La figlia unica”, un romanzo che esplora la questione della maternità (ma non solo…), mostrando la complessità e le tante -anche contraddittorie- sfaccettature del tema, attraverso il racconto di un momento particolare della vita di tre donne.
C’è Laura, la voce narrante, che sceglie di escludere dalla sua vita la possibilità di diventare madre, ma che un giorno si scopre a seguire la cova di un uovo misterioso, da parte di due piccioni che hanno fatto il nido sul tetto del suo terrazzo. Nido che inizialmente tenta di rimuovere, ma che poi si arrende ad accogliere. Laura, che si ritrova – sempre senza riuscire a spiegarsi bene perché- sempre più coinvolta nella cura di un bambino suo vicino di casa e di sua madre Doris, alle prese con una drammatica fase di vita. C’è infine Alina, grande amica di Laura, che resta incinta quando oramai ha perso la speranza di diventare madre, e che si ritrova catapultata, assieme al compagno Aurelio, in un complicato e potente percorso di accettazione e costruzione di un legame con Ines, la sua bambina affetta da una grave malformazione cerebrale; un percorso denso di ostacoli, ma anche di impensate possibilità.
Il tema della maternità si dispiega, nel corso delle pagine, restituendomi l’immagine di un fiore che lentamente si schiude, allargando sempre di più la sua corolla. Siamo soliti pensare alle definizioni nei termini di processi che delimitano, appunto, circoscrivono. La definizione di maternità -sembra dirci la Nettel -specie se pensata nei termini di funzione materna– custodisce al suo interno un elemento aperto, inclusivo, morbido nella sua flessibilità, che trascende i limiti della maternità biologica. “La figlia unica” è molto più di un libro sull’essere o meno madri. E’ un libro sulla forza e preziosità di certe relazioni al femminile; sull’esser madri dei figli propri o dei figli degli altri; sull’esser madri di se stesse, delle proprie madri, delle proprie amiche, dei propri progetti e, perché no, di un piccolo uovo che si schiude sul terrazzo.
Il materno, allora, diviene possibilità che si annida in spazi impensati, attitudine ad accogliere e a prenderci cura (anche) di quanto la vita, improvvisamente, ci mette davanti.
Che altro aggiungere? Questo romanzo mi è piaciuto al punto di farmi tornare il desiderio di scrivere sul blog.

(…) vedendoli, mi sono detta che è vero che esiste il destino, ma c’è anche il libero arbitrio, e consiste nel modo in cui prendiamo le cose che ci tocca vivere.