Le parole e la neve

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Claude Monet, Entrata di Giverny sotto la neve (1885)

C’ero soltanto.

C’ero.  Intorno

cadeva la neve.

(Kobayashi  Issa)

Mi piace -chi segue questo blog lo avrà capito- entrare in rapporto con la parola; addentrarmi al suo interno, nella fantasia di coglierne il segreto, costruendoci attorno un senso che non pretende di porsi come vero ma, piuttosto, di raccontare autenticamente un incontro. Parlo di parola al singolare, perché la penso sola e liberata dalla cornice del testo, messa nella condizione di sprigionare tutto il senso emozionale possibile.

A volte, nella mia esperienza quotidiana, affiora una parola; inizia ad accompagnarmi per un po’, ed è come se condensasse e custodisse al suo interno un’atmosfera, un umore del momento, qualcosa che si è sedimentato dentro, magari senza che ne avessi piena consapevolezza, un po’ come accade a valle di certi sogni, che si lasciano dietro un misto di immagini e sensazioni sfocate…

Quando riesco a far spazio dentro e a mettermi in ascolto, la parola diviene un incipit per svolgere quel senso emozionale inizialmente condensato, parlato eppure indicibile. Nascono così delle riflessioni, che assomigliano a dei percorsi che, chiedendoti di accettare il rischio di perderti, ti permettono, di arrivare in luoghi non prevedibili a priori.

Una parola mi ha fatto compagnia in questi giorni, bianchi come la neve che ha continuato silenziosa ed implacabile a cadere. Il bianco -si sa- contiene tutti i colori, e se da un lato pare coprirli, neutralizzarli, dall’altro custodisce una profondità densa di sfumature. Lo stesso, mi pare, accada per la neve, esperienza emozionalmente così diversa, a seconda della posizione dalla quale la si osservi, o viva. Penso alle immagini di qualche settimana fa, dei migranti bloccati a Belgrado, sotto una neve indifferente, in spazi aperti desolati -deserti di ghiaccio- che mi hanno riportato alla mente le immagini dei campi di concentramento. Penso al terremoto in centro Italia, alla neve che copre la devastazione di un territorio, il dolore di intere comunità, e pare sale su ferita. Quella stessa neve che, però, diviene scudo termico, capace di proteggere dal gelo – nell’oscurità di spazi scampati alla valanga- un piccolo, preziosissimo, gruppo di vite umane. È la stessa neve delle nostre settimane bianche, quella che, magari, ci incanta e amiamo osservare alla finestra, protetti dal tepore delle nostre case. Una neve poetica che scalda ed ispira…

Difficile tenere insieme tutto questo, forse anche intollerabile, eppure seguire il filo di queste connessioni emotive, stringerlo tra le mani, mi restituisce una sensazione di contiguità e vicinanza, anche con situazioni apparentemente distanti, nel momento stesso in cui mi mette di fronte e ricorda la mia posizione. Quanto siamo impreparati, indifesi e soli, di fronte al dolore. Come siamo uguali. Quanto facilmente, tuttavia, rischiamo di dimenticarlo..

Consolare è la parola che si è fatta strada tra la neve, il suo silenzio ovattato, le crepe di dentro e di fuori. L’etimologia di questo verbo –cum (con) e solari (confortare), a sua volta da solus (solo, intero)- pare ricondurre l’essenza della parola ad una posizione relazionale: quella dello stare accanto a qualcuno che è solo. Solo -verrebbe da dire- eppure in compagnia del proprio dolore. Stare vicino. Punto.

Quanto è difficile stare, quando non vi è altro da fare, perché posti di fronte ad un limite, o perché, magari, è l’altro a chiederci proprio e solo questo. Riflettevo su come l’atto stesso del consolare, abbia assunto -forse nel tempo?- una valenza vagamente svalutante… si pensi all’aggettivo consolatorio, che a volte sembra far rima con illusorio. Come se quello stare con, riconoscendo e legittimando una sospensione dell’azione, costituisse, in fin dei conti, una perdita di tempo.

Nella mia esperienza clinica, ma anche nella vita, mi accorgo, ogni giorno di più, di quanto sia prezioso ma difficile da abitare, questo tempo in cui si prova a stare -insieme- con quello che c’è.  Un tempo in cui provare ad accogliere e tollerare l’impotenza, il dolore, la frustrazione di sentire che -almeno per il momento- non vi sia qualcosa da fare, e forse neppure da dire. Un tempo in cui, tuttavia, il fatto di sentirsi accolti e in compagnia di un altro, diviene premessa per mantenere una fiducia, magari flebile, ma pur sempre presente, nel fatto che si tratti di una fase con una durata imprevedibile ma limitata. Un tempo che precede e prepara il momento dell’elaborazione e dell’attraversamento. Un tempo in cui la mia funzione è solo quella di tenere accesa la fiamma della fiducia, anche quando l’altro non spera più…


2 risposte a "Le parole e la neve"

  1. Ciao Silvia, bello il tuo blog. Qualche idea che mi è venuta in lettura. Anche la Cabala ebraica ha un intenso, a volte mistico rapporto con la parola. C’è un bel film che lo illustra bene che si chiama Bee Season (con Richard Gere).
    Rispetto poi al consolare condivido il timore della ipocrisia di fronte al dolore altrui. Gli amici di Giobbe ne sembrano essere un esempio classico; e questi si sono almeno preso del tempo. Credo che il dolore sia uno stato che non si riesca a condividere e forse proprio per questo è così formativo. Oggi poi ho letto una cosa in 1 Pietro che mi ha stupito: “Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi.” Non credo che facesse appello ad un masochismo fanatico, ma forse proprio alla forza formativa del dolore.

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